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Risposte alle domande di Peter Brook (1)

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Cos’è un attore?

Lei mi mette in difficoltà, Maestro. Immagino che non basti rispondere “l’attore è uno che recita”. Dunque, mi lasci dire qualcosa per via apofatica: un attore non è un animale e non è uno strumento inanimato; e poi mi lasci un po’ di via catafatica: l’attore è un professionista. Parlo dell’attore occidentale, che lavora – o lavorerebbe – per un compenso. Non è un animale: tende ad un fine e ha molti secondi fini, alimentari e pratici (più l’ambizione e il narcisismo; ma il narcisismo non è una colpa); non è uno strumento inanimato: non è un martello, né un trapano, e nemmeno un fazzoletto di carta; è un professionista, quindi opera senza gratuità (cioè senza carità, per forza di cose).

 

Cos’è la recitazione dell’attore?

Maestro, mi guardi, per favore. La recitazione dell’attore è una mediazione tra controllo esterno, autocontrollo, improvvisazione. Il risultato non è strategico in modo assoluto. Faccio un esempio musicale. Luigi Nono ha imposto agli esecutori di Fragmente-Stille. An Diotima di suonare pensando ai testi di Hölderlin: “Gli esecutori li ‘cantino’ internamente nella loro autonomia” e “in nessun caso da esser detti durante l’esecuzione”. Dopo il recitar cantando, è nato il pensar suonando.

Maestro, il principio è raffinatissimo, ma gli esecutori ci pensano davvero? E per quanto possono imporsi la dolce tortura di “cantare internamente”? Che cosa accade se il pensiero devia? Che cosa arriva in un caso e nell’altro al pubblico?

Veniamo a noi, Maestro. Il regista non è il padrone di tutto l’attore. In nessun caso. Quindi la recitazione dell’attore è una unicità incontrollabile, o non del tutto controllabile. Ma adesso mi lasci dire una cosa, Maestro: qui parliamo troppo umanisticamente. Troppo, davvero. Cioè: sono abbastanza certo che quando Lei mi chiede dell’attore e della recitazione, non si riferisce a Marina Massironi a Mike Myers a Sascha Baron Cohen. Per Lei l’attore è un essere culto e colto, Maestro: o no? Lei ha ragione: l’arte dell’attore culto e colto è una possibilità. Ma Ace Ventura e Brüno non sono altre possibilità? Io sarei stato felice di scrivere Brüno. Senz’altro, sì.

Quello che scrisse Aldo Busi su – e contro – Carmelo Bene è terribilmente serio. L’intervista – un massacro più giusto che orrendo – uscì su “Playmen” nell’aprile del 1989. Vede: non si può parlare impunemente di Deleuze e di Klossowskia chi ha scritto il Seminario sulla gioventù e fu Barbino, e poi un cameriere. Legga Busi, Maestro, ne vale la pena. La “broda di estetismo” è troppo oggettiva per essere ignorata da noi.

 

La recitazione è differente dal normale comportamento?

Ho notato i corsivi, Maestro. Lei voleva mettermi di nuovo in difficoltà. Questo discorso sulla recitazione non si alza dal livello teorico. La recitazione è sempre la recitazione di qualcosa e – nel caso del teatro rappresentativo – è la rappresentazione di un ruolo. Franco Graziosi che interpreta Cotrone (in costumi di scena, in una scenografia, con altri attori, sotto la regia di Strehler) non è Corrado d’Elia che interpreta gli scriti di Strehler (vestito normalmente, da solo, senza scenografia, senza regista all’infuori di d’Elia). Eppure Franco Graziosi e Corrado d’Elia recitano. Il verbo è lo stesso, recitare, ma il fatto è diverso.

La recitazione che fa di Graziosi un Cotrone non è la recitazione che fa di d’Elia uno Strehler. La recitazione di Graziosi è “differente dal normale comportamento”; e – sempre in casa di Strehler – la Ilse di Andrea Jonasson non ha nulla – ma proprio nulla – del “normale comportamento”: sia per come la parte è voluta da Pirandello sia per come la interpreta Jonasson. Voglio dire che la recitazione o si mostra nella casistica – e noi giudicheremo la casistica – o è un’astrazione.

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